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Escaping with cats – a fairy tale by Gianni Rosari

Dear friends, help us! This is a beautiful fairy tale written by Italian most important children’s writer. We need a poet for translation!

Il signor Antonio, capostazione in pensione, ha un figlio, una nuora, un nipote di nome Antonio, detto Nino, una nipotina di nome Daniela, ma nessuno che gli dia retta.
Mi ricordo, – comincia a raccontare, – quando ero vicecapostazione a Poggibonsi…
Papà, – lo interrompe il figlio, – mi lasciate leggere il giornale in pace?
Sono vivamente interessato alla crisi di governo nel Venezuela.
Il signor Antonio si rivolge alla nuora e ricomincia da capo:
– Mi ricordo quando ero capostazione aggiunto a Gallarate…
– Papà, – lo interrompe la signora nuora, – perché non andate a fare quattro passi?
Vedete bene che sto lucidando il pavimento con la cera Blu, che brilla di più.
Il signor Antonio non ha maggiore fortuna col nipote Nino, il quale deve leggere l’appassionante fumetto Satana contro Diabolus, vietato ai minori di diciotto anni (lui ne ha sedici).
Egli spera molto nella nipotina, alla quale per¬mette ogni tanto d’indossare il suo berretto di capostazione
per giocare allo scontro ferroviario con quarantasette morti e centoventi feriti; ma Daniela è molto occupata e infatti dice: – Nonno, mi fai perdere la tv dei bambini, che è tanto istruttiva.
Daniela ha sette anni, ma ama moltissimo l’istruzione. Il signor Antonio sospira: – In questa casa non c’è posto per i pensionati delle Ferrovie dello Stato con quarantanni di servizio.
Una volta o l’altra piglio su e me ne vado. Parola.
Vado via con i gatti.
Difatti una mattina esce di casa, dicendo che va a giocare al lotto; invece va a piazza Argentina, dove tra le rovine dell’antica Roma sono accampati i gatti. Scende gli scalini, scavalca la sbarra di ferro che divide il regno dei gatti da quello delle automobili e diventa un gatto. Subito comincia a leccarsi le zampe, per essere ben sicuro di non portarsi dietro, in quella nuova vita, la polvere delle scarpe umane, e intanto gli si avvicina una gatta un po’ spelacchiata che lo guarda. E lo guarda. E lo guarda fisso.
Finalmente gli dice: – Scusa, ma tu non eri il signor Antonio?
Non voglio più neanche ricordarmelo. Ho dato le dimissioni.
Ah, mi pareva. Sai, io ero quella maestra in pensione che abitava in faccia a casa tua. Mi avrai vista. O forse avrai visto mia sorella.
– Vi ho viste, si: litigavate sempre a causa dei canarini.
– Proprio. Ero tanto stufa di litigare che ho deciso di venire a vivere con i gatti.
Il signor Antonio è sorpreso. Credeva di essere il solo ad aver avuto quella bella pensata.
Invece impara che tra quei gatti lì dell’Argentina, appena una metà sono gatti-gatti, figli di madre gatta e di padre gatto: gli altri sono tutte persone che hanno dato le dimissioni e sono diventate gatti. C’è un netturbino fuggito dal ricovero dei vecchi. Ci sono delle signore sole che non andavano d’accordo con la domestica. C’è un giudice del tribunale: era ancora un uomo giovane, con moglie e figli, la macchina, l’appartamento quadri – camere doppi servizi, non si sa perché sia venuto a stare con i gatti; però arie non se ne dà, e quando le «mamme dei gatti» arrivano con i cartocci pieni di teste di pesce, bucce di salame, avanzi di spaghetti, croste di formaggio, ossetti e frattaglie, prende la sua parte e si ritira a mangiarla sul gradino più alto di un tempio.
I gatti-gatti non sono gelosi dei gatti-persone: li trattano assolutamente alla pari, senza superbia. Tra di loro, ogni tanto, mormorano: – A noi però non verrebbe neanche in mente di diventare uomini, con quel che costa il prosciutto.
Siamo proprio una bella compagnia, – dice la gatta-maestra.
– E questa sera c’è la conferenza di astronomia. Ci vieni?
Naturale, l’astronomia è la mia passione. Mi ricordo che quando ero capostazione a Castiglion del Lago avevo piazzato un telescopio a duecento ingrandimenti sul terrazzino e di notte osservavo l’anello di Saturno, i satelliti di Giove tutti in fila come palline sul pallottoliere, la nebulosa di Andromeda, che assomiglia a una virgola.
Molti gatti si avvicinano per ascoltare. Non hanno mai avuto tra loro un ex capostazione; vogliono sapere tante cose sui treni, domandano come mai nei gabinetti delle carrozze di seconda manca sempre il sapone, eccetera. Quand’è l’ora giusta e in cielo si vedono bene le stelle, la gatta-maestra tiene la sua conferenza.
Ecco, – dice, – guardate là: quella costellazione si chiama l’Orsa Maggiore. Quell’altra è l’Orsa Minore. Giratevi come mi giro io, mirate dritto a destra della torre Argentina: quello è il Serpente.
Mi pare uno zoo, – dice il gatto netturbino.
Poi c’è la Capretta, l’Ariete, lo Scorpione.
Pure! – si stupisce qualcuno.
Li, quella costellazione li, è il Cane.
Mannaggia, – borbottano i gatti-gatti. Quello che borbotta più di tutti è il Corsaro Rosso, cosi chiamato perché è tutto bianco, ma ha un carattere avventuroso. E lui che domanda a un certo punto: – E la costellazione del Gatto, c’è?
– Non c’è, – risponde la maestra.
– Non c’è nemmeno una stella, magari piccola piccola, che si chiami Gatto?
– Non c’è.
– Insomma, – sbotta il Corsaro Rosso, – hanno dato le stelle a cani e porci e a noi niente. Bella roba.
Si sentono miagolii di protesta. La gatta-maestra alza la voce per difendere gli astronomi: loro sanno quello che fanno, a ciascheduno il suo mestiere; e se hanno creduto bene di non chiamare Gatto neanche un asteroide, avranno avuto le loro buone ragioni.
– Ragioni che non valgono la coda di un topo, – ribatte il Corsaro Rosso. – Sentiamo cosa ne dice il giudice.
Il gatto-giudice precisa che lui ha dato le dimissioni proprio per non dover più giudicare niente e nessuno. Ma in questo caso farà un’eccezione: – La mia sentenza è: agli astronomi, peste e corna!
Applausi scroscianti. La gatta-maestra si pente della sua ammirazione per i fatti compiuti e promette di cambiare vita. L’assemblea decide di organizzare una manifestazione di protesta. Messaggi speciali vengono mandati per corriere a mano a tutti i gatti di Roma: a quelli dei Fori, a quelli dei macelli, a quelli del San Camillo, schierati sotto le finestre dei reparti in attesa che i malati buttino loro il rancio, se capita che sia una schifezza. Ai gatti di Trastevere, ai randagi di borgata, ai bastardi di borghetto abusivo. Ai gatti del ceto medio, se vogliono associarsi, dimenticando per una volta i vantaggi del polmone tritato, del cuscino di piuma, del nastrino al collo.
L’appuntamento è per mezzanotte al Colosseo.
– Magnifico, – dice il gatto-signor Antonio. – Sono stato al Colosseo da turista, da pellegrino e da pensionato, ma da gatto ancora mai. Sarà un’esperienza eccitante.
La mattina dopo si presentano per visitare il Colosseo americani a piedi e in automobile, tedeschi in pullman e in carrozzella, svizzeri col sacco a pelo, abruzzesi con la suocera, milanesi con la cinepresa giapponese; ma non possono visitare un bel niente, perché il Colosseo è occupato dai gatti. Occupate le entrate, le uscite, l’arena, le gradinate, le colonne e gli archi. Non si vedono quasi più le vecchie pie­tre, ma solo gatti, centinaia di gatti, migliaia di gatti. A un segnale del Corsaro Rosso compare uno striscione (opera della maestra e del signor Antonio), che dice: «Colosseo occupato. Vogliamo la stella Gatto!».
Turisti, pellegrini e passanti – che per stare a vedere si sono dimenticati di passare – applaudono con entusiasmo. Il poeta Alfonso Gatto pronuncia un discorso. Non tutti capiscono quello che dice, ma solo a guardarlo è evidente che se si può chiamare Gatto un poeta, si può chiamare cosi anche una stella. Una gran bella festa. Dal Colosseo partono gatti viaggiatori per Parigi, Mosca, Londra, Nuova York, Pechino, Monteporzio Catone. L’agitazione si svilupperà sul piano internazionale. E prevista l’occupazione della torre Eiffel, del Big Ben, delle torri del Cremlino, dell’Empire State Building, del Tempio della Pace Celeste, della tabaccheria Latini; insomma di tutti i luoghi illustri. I gatti dell’intero pianeta avanzeranno la loro richiesta agli astronomi in tutte le lingue. Un giorno, anzi, una notte, la stella Gatto brillerà di luce propria.
In attesa di notizie i gatti romani tornano alle loro sedi. Anche il signor Antonio, con la gatta-maestra, si avvia di buon passo verso piazza Argentina, facendo progetti per altre occupazioni.
– Come starebbe bene, – egli pensa e dice, – la Cupola di San Pietro tutta ornata di gatti con la coda ritta.
– E che cosa ne diresti, – domanda la gatta-maestra, – di occupare lo stadio Olimpico il giorno del derby Roma-Lazio?
Il signor Antonio parte per dire «formidabile!», col punto esclamativo, ma non arriva neanche a metà della parola per­ché improvvisamente si sente chiamare: – Nonno! Nonno!
Chi è? Chi non è? E Daniela che sta uscendo dal portone della scuola e lo ha riconosciuto. Il signor Antonio, avendo già preso una certa pratica come gatto, fa finta di niente. Ma Daniela insiste: – Nonno, cattivo, perché sei andato via con i gatti? Sono giorni che ti cerco per mare e per terra. Torna subito a casa.
Che bella bambina, – dice la gatta-maestra. – Che classe fa? Ha una bella scrittura? Si pulisce bene le unghie? Non sarà mica di quelle che scrivono «abbasso il bidello» sulla porta del gabinetto?
E tanto brava, – spiega il signor Antonio, un po’ commosso. – Quasi quasi l’accompagno un pezzetto, cosi sto attento che non attraversi la strada col rosso.
Ho bell’e capito, – dice la gatta-maestra. – Be’, vuol dire che io andrò a vedere come sta mia sorella. Magari le è venuta l’artrite deformante e non riesce più ad allacciarsi le scarpe da sola.
Su, nonno, vieni, – ordina Daniela. La gente che la sente non si meraviglia, perché crede che quel gatto si chia­mi Nonno. Niente di straordinario: ci sono anche dei gatti che si chiamano Bartolomeo e Gerundio.
Appena in casa il gatto-signor Antonio salta sulla sua poltrona preferita e agita dignitosamente un orecchio in segno di saluto.
Hai visto? – dice Daniela tutta contenta. – E proprio il nonno.
E vero, – conferma Nino. – Anche il nonno era capace di muovere le orecchie.
– Va bene, va bene, – dicono i genitori un po’ confusi. – E adesso, morale della favola: a tavola.
Ma i migliori bocconi sono per il gatto-nonno. Per lui ciccia, latte, biscottini, carezze e baci. Vogliono sentire come fa le fusa. Si fanno dare la zampina. Gli grattano la testa. Gli mettono sotto un cuscino ricamato. Gli preparano il gabinetto con la segatura.
Dopo pranzo il nonno esce sul balcone. Dall’altra parte della strada, su un altro balcone, c’è la gatta-maestra che tiene d’occhio i canarini.
– Com’è andata? – le domanda.
– Rose e fiori, – risponde lei. – Mia sorella mi tratta meglio di una papessa.
– Ma ti sei fatta riconoscere?
Non sono mica scema! Se sa che sono io, è capace di farmi mettere al manicomio. Mi ha dato la coperta della nostra povera mamma, che prima non mi permetteva neanche di guardarla.
Io non so, – dice il gatto-signor Antonio, – Daniela vorrebbe che io ritornassi ad essere il nonno. Mi vogliono tutti un gran bene.
Bravo merlo. Trovi l’America e la butti via. Vedrai se non ti penti.
Non so, – ripete lui, – quasi quasi faccio testa o croce. Ho tanta voglia di fumare un mezzo toscano…
Però, come fai a ricambiarti da gatto in nonno?
E semplicissimo, – dice il signor Antonio.
Difatti va in piazza Argentina, scavalca quella sbarra di ferro in senso contrario alla prima volta e al posto del gatto ricompare un signore anziano che accende il sigaro. Torna a casa con un po’ di batticuore. Daniela, come lo vede, salta di gioia. Sull’altro balcone la gatta-maestra apre un occhio in segno di augurio, ma tra sé borbotta: – Bravo merlo.
Su quel balcone c’è anche sua sorella, che guarda la gatta con occhi dolci e intanto pensa: «Non mi ci debbo affezionare troppo, perché poi se muore ci soffro e mi vengono le palpitazioni».
È l’ora che i gatti dei Fori si svegliano ed escono a caccia di topi. I gatti dell’Argentina si radunano in attesa delle donnette che portano loro affettuosi cartoccetti. I gatti del San Camillo si dispongono nelle aiuole e nei vialetti, uno sotto ogni finestra, sperando che la cena sia cattiva e i malati gliela buttino giù di nascosto della suora. E i gatti randagi che prima erano persone si ricordano di quando guidavano gli autotreni, facevano girare i torni, scrivevano a macchina, erano belli e avevano l’innamorata.

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